Nell’analisi del tracciamento dei contatti che un positivo al COVID 19 ha avuto, per definire chi si debba allertare per contenere la diffusione del virus, in alcuni casi, si nota come la socialità tra colleghi, al di fuori del luogo di lavoro, possa essere una delle ipotesi della diffusione del morbo. Soggetti che sul luogo di lavoro sono assoggettati a procedure stringenti e a discipline vigilate, una volta che si incontrano in ambito privato, si lasciano andare a consuetudini sociali, che la cautela, al momento, induce ad abbandonare. L’allentamento delle attenzioni, nei luoghi di vita, induce a comportamenti che dovrebbero essere abbandonati, in particolare da quanti, nella quotidianità lavorativa, sono obbligati a mantenere le distanze interpersonali previste, a disinfettare sovente le mani e ad indossare mascherine protettive. La percezione del rischio evidentemente si annulla, nella ricerca di una normalità che ancora non ci possiamo permettere. Senza per questo entrare nella sfera del privato, che rimane protetta e intoccabile, non ci si può nascondere che queste circostanze non possono essere ignorate da chi, consapevolmente, vuole agire al contenimento della pandemia. L’autodisciplina e la vigilanza sono in capo ad ogni individuo e devono essere sempre messi in pratica nei comportamenti di ogni giorno. Ritorna la sensazione che procedure e attenzioni siano sempre considerate meri adempimenti amministrativi, mentre dovrebbero essere temporaneamente trasformati in veri stili di vita.